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Autonomia: la vera “questione italiana”

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di Matteo Marra

Roberto Calderoli, Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, si è adoperato per l’entrata in vigore del disegno di legge sull’autonomia differenziata. Questa legge è stata approvata dal Senato nella seduta del 23 gennaio 2024. Subito sono scoppiate le polemiche. I governatori del Nord, talvolta legati al mondo del secessionismo padano, come Zaia del Veneto, Fedriga del Friuli-Venezia Giulia e Fontana della Lombardia sono già contenti. Bisogna, infatti, ricordare che in Veneto c’è stato un referendum consultivo il 22 ottobre del 2017, con un’affluenza del 57,2% che ha visto vincere – con il 98,1% – il sì. Stesso referendum c’è stato in Lombardia, in cui il sì ha vinto con il 96, 02%. In ambo i referendum, il quesito riguardava l’autonomia differenziata.

La legge sull’autonomia differenziata altro non è se non una legge di attuazione del terzo comma dell’articolo 166 della Costituzione, che prevede che le regioni a statuto ordinario possano richiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nell’ambito dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione e della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, nonché delle materie di competenza concorrente. Nulla di nuovo all’orizzonte, l’articolo 116 della Costituzione è stato modificato il 7 novembre del 2011 ed è allora che è stata “creata” l’autonomia differenziata. Risulta quindi incomprensibile la “rivolta” dei governatori del Sud (esponenti spesso del PD), che si sono schierati contro l’autonomia differenziata. Incomprensibile è anche la presa di posizione dei media, che presentano la legge sull’autonomia differenziata come un tentativo di rovesciare l’ordinamento costituzionale.

Quello che è, in realtà, incomprensibile è il fatto che esistano regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario. Differenza non di poco conto, che crea, inesorabilmente, cittadini di serie A e cittadini di serie B. Coloro che vivono in una regione a statuto speciale hanno maggiore potere rispetto a coloro che vivono in una regione a statuto ordinario. Basti pensare al fatto che il Governo non può intromettersi negli affari delle regioni a statuto speciale e lo statuto di queste regioni è parte integrante della Costituzione mentre le regioni a statuto ordinario sono maggiormente dipendenti dal Governo di Roma.

La legge sull’autonomia differenziata deve essere vista come il frutto di uno scontro entro il Governo, che è composto da tre forze estremamente eterogenee. La Lega è da sempre sostenitrice di un’Italia federale, mentre Fratelli d’Italia immagina un’Italia giacobina su modello francese, modello che oggi è estremamente in crisi. Sono passati nove anni da quando Giorgia Meloni disse: “Dobbiamo avere il coraggio di dire che il regionalismo ha fallito perché le regioni hanno finito per diventare centri di spesa formidabili, e sono state utilizzate dalla partitocrazia per moltiplicare indennità, carrozzoni, consulenze ed occasioni di malaffare lontano dai riflettori. E aggiungo che l’identità italiana non si fonda affatto sulle regioni. Le regioni sono nate nel 1970 da un compromesso politico tra la DC ed il PCI. L’identità italiana si poggia sui comuni, che vogliamo rendere più forti, restituendo allo stesso tempo l’autorità allo Stato centrale. Tra questi due livelli di governo, noi proponiamo un solo livello intermedio con la nascita di 36 distretti, con funzioni amministrative e non legislative. Sono 36 aree omogenee per tradizioni, cultura e tessuto sociale, così come sono state individuate dalla Società Geografica Italiana. Su questo terreno sfido il Governo, che parla di macroregioni, ancora più distanti dai cittadini e quindi incontrollabili, e la Lega Nord, che si ostina a difendere un sistema palesemente fallito”.

Ci sono diverse cose che non tornano in questo discorso. In primo luogo, il regionalismo non ha affatto fallito; le Regioni risolvono quei problemi che il Governo centrale ignorerebbe se le Regioni fossero abolite, come proponeva Meloni. In secondo luogo, non è vero che l’identità italiana non si fonda sulle regioni; basterebbe studiare un minimo di storia recente per rendersi conto dell’esatto contrario. In Italia, i comuni si affermano tra il 1200 ed il 1300, quando, poi, le istituzioni comunali entrano in crisi e si afferma la “signoria cittadina”. Queste signorie cittadine tendono ad espandere il proprio territorio nel cosiddetto “contado”, creando enti territoriali sempre più vasti. Già nella prima metà del 1400 troviamo quelli che la storiografia definisce “stati regionali”, che sopravviveranno con non poche difficoltà fino al 1861, con l’unità d’Italia.

In terzo luogo, non è vero che le Regioni nascono nel 1970 come compromesso politico tra DC e PCI. Le Regioni si trovano già nell’articolo 114 della Costituzione del 1948. Le Regioni a statuto ordinario sono, poi, state attuate nel 1970, ma esistevano già ed erano già attive le Regioni a statuto speciale. Inoltre, il discorso sulle regioni inizia prima della proclamazione del Regno d’Italia. All’interno della classe politica italiana vi era un dibattito tra due differenti correnti di pensiero su quale struttura amministrativa si dovesse dotare lo Stato italiano. La corrente dei “regionalisti” proponeva un decentramento basato proprio sulle Regioni, tenendo conto dell’esistenza di interessi regionali diversi e dalla varietà delle tradizioni locali. La corrente degli “accentratori” riteneva pericoloso un decentramento regionale, viste le numerose difficoltà incontrate nel processo di unificazione della penisola italiana. Fu proprio questa corrente accentratrice a prevalere nel momento in cui fu annesso il Mezzogiorno. I deputati di origine meridionale sostennero proprio un forte controllo centralistico.

In questo discorso si colloca anche la questione del terzo mandato dei governatori delle Regioni. È assurdo pensare che si debba rinunciare ad un governatore capace perché è già stato eletto per due mandati. Eppure il Governo di Roma non si smentisce, l’emendamento sul terzo mandato per i presidenti/governatori di Regione proposto dalla Lega è stato bocciato con i voti contrari di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Il Presidente Meloni persevera nella sua posizione “giacobina” e dichiara a Rai1: “Il terzo mandato non era inserito nel programma, non è iniziativa del governo, era un’iniziativa parlamentare, ci sono state opinioni diverse ma in massima serenità”.

Tutti insistono nel dire che questa “è una materia che non crea problemi al governo o alla maggioranza”, ma è poco credibile. Non credo che il governo cadrà su questo, ma questo voto concorre ad aumentare le tensioni interne alla maggioranza. Non dobbiamo, infatti, dimenticare quanto dichiarato da Meloni in occasione della rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica con il voto anche della Lega di Salvini: “Non l’ho capito, lo trovo incomprensibile. Ho scoperto dalle agenzie di stampa che avrebbe votato Mattarella. L’unica ipotesi a cui tutti i leader del centrodestra avevano detto no con apparente convinzione. Ed è la seconda volta che apprendo dalle agenzie di scelte su cui sembravamo d’accordo poi totalmente disattese: prima l’ingresso di Forza Italia e Lega nel Governo Draghi ed adesso questa. Se ci siamo chiariti? No, d’altronde non credo ci sia molto da chiarire”. Ed ancora: “Con Berlusconi e Salvini in questo momento non siamo alleati. Mi sembra che abbiano preferito l’alleanza col centrosinistra, sia per Draghi sia per Mattarella. Se, per fare una prova, manca un terzo indizio, quello è la legge elettorale: c’è chi cercherà di cambiarla in senso proporzionale. Se ci staranno, ci sarà poco da aggiungere, perché con il proporzionale si riproduce la palude degli ultimi governi”. È, quindi, la legge elettorale tendenzialmente maggioritaria ad aver salvato la coalizione di centrodestra. La stessa legge che ha permesso a Giorgia Meloni di diventare Presidente del Consiglio dei Ministri.

Oggi, servirebbe tornare ad un sistema proporzionale puro senza soglia di sbarramento per permettere una maggiore rappresentanza dell’elettorato italiano, dopotutto siamo una Repubblica parlamentare e non presidenziale. Il Governo lo decide il Parlamento di concerto col Presidente della Repubblica. Interessante potrebbe essere una riforma costituzionale per rendere tutte le Regioni uguali, con lo stesso grado di autonomia. Per rimanere in un contesto tradizionale, l’identità italiana si costruisce proprio sulla differenza di tradizioni, costumi e lingue locali. Un’enorme varietà che fa dell’Italia quel posto dove c’è tutto. Un’enorme varietà che può essere valorizzata solo con un forte decentramento. Dovremmo ispirarci più ad un modello che funziona, come quello tedesco, piuttosto che ad un modello fallimentare, come quello francese.

 

 

(23 febbraio 2024)

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