di Matteo Marra
Non si comprende bene come mai la proposta di legge costituzionale presentata da Fratelli d’Italia l’11 giugno del 2018 sul presidenzialismo (quello “vero” vero, non quello “finto” del premierato, che Meloni spaccia per “vero”) sia ancora ferma alla Camera dei Deputati. Eppure, i firmatari della proposta sono anche personaggi famosi, che ricoprono incarichi importanti, come, per citarne alcuni per esempio, Meloni (prima firmataria, eh), Rampelli, Acquaroli, Crosetto, Delmastro Delle Vedove, Donzelli, Fidanza, Foti, Lollobrigida e Montaruli. Se ne sono dimenticati tutti?
Quella sul presidenzialismo è pure una proposta decente, scritta bene, con tanto di richiami alla storia costituzionale d’Italia, con citazioni che arrivano a Gaetano Salvemini, Pietro Calamandrei, Randolfo Pacciardi, Leo Valiani, Giuseppe Saragat, Giuseppe Maranini e il grande Giorgio La Pira. Le argomentazioni erano anche convincenti: “Il presidenzialismo, insomma, non è un’invenzione dell’ultima ora, è una storica proposta di Fratelli d’Italia e della destra italiana: investe l’efficienza della nostra democrazia, la capacità decisionale del potere politico e le risposte da dare alle richieste di modernizzazione delle istituzioni”. Addirittura, Fratelli d’Italia non solo abbandonava l’assurda idea di abolire le Regioni, come vagheggiato da una Giorgia Meloni ad un Atreju di qualche anno fa (precisamente nel 2014), ma addirittura parlava di “avanzati esperimenti di federalismo”, resi possibili proprio da una rinnovata Presidenza della Repubblica, quale simbolo autentico di unità nazionale, con una diretta legittimazione popolare.
Nella proposta del 2018 non si parlava solo di elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma anche definendo un nuovo ruolo del Capo dello Stato nell’ambito del Governo. Egli, in particolare, avrebbe presieduto il Consiglio dei Ministri e nominato il Primo Ministro, direttamente, senza la fiducia delle Camere. Il Parlamento, però, avrebbe continuato ad esercitare un ruolo di controllo sul Governo, seppur nei limiti della forma di governo presidenziale, tramite la “sfiducia costruttutiva”: “La mozione di sfiducia deve essere motivata e deve indicare la persona alla quale il Presidente della Repubblica deve conferire l’incarico di Primo Ministro”. Il Presidente della Repubblica avrebbe, poi, diretto la politica generale del Governo e ne sarebbe stato responsabile. Egli avrebbe dovuto mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri, con il concorso del Primo Ministro.
La forma di governo presidenziale, come appena illustrata, era costruita da Fratelli d’Italia prendendo spunto dal sistema francese, quindi una forma di governo semipresidenziale, che, al contrario di quanto suggerisce il nome, è molto più stabile del presidenzialismo puro e crudo alla statunitense. Ora, possiamo forse considerare sciolto quel dubbio che avevamo all’inizio: la proposta sul presidenzialismo (ma sarebbe corretto parlare di semipresidenzialismo) è stata messa da parte perché il Governo Meloni non ha la forza materiale per portarla avanti. In primo luogo, se Fratelli d’Italia insistesse sul semipresidenzialismo, essendo ora partito maggioritario di governo, potrebbe ulteriormente minare la già fragile relazione tra Palazzo Chigi e il Quirinale: il Presidente Mattarella, basandosi sulla sua storia personale e politica, non si troverebbe d’accordo con un tentativo di modificare la forma di governo della Repubblica in modo così radicale. E avere buoni rapporti con la Presidenza della Repubblica, per il Governo, è fondamentale; il mandato del Presidente Mattarella terminerà nel 2029, salvo dimissioni. Fino al 2029, Fratelli d’Italia ha le mani legate su riforme costituzionali radicali, a meno che non voglia dare inizio ad una crisi istituzionale. In secondo luogo, bisognerebbe effettivamente vedere se gli altri partiti che compongono il Governo, cioè Forza Italia e Lega, hanno davvero l’intenzione di sostenere la riforma delineata nel progetto del 2018 (in realtà, pare che nutrano riserve anche sul premierato).
Il problema principale è che Giorgia Meloni aveva promesso, in campagna elettorale, le “grandi riforme” e, a distanza di due anni, non si sono ancora viste, perché il Governo non ha la forza materiale per farle, memore della campagna referendaria del 2016, che ha determinato la fine politica dell’allora Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Sconfitta, quella renziana, che dà una grande lezione a tutti coloro che promuovono riforme costituzionali “coraggiose”, che sono viste dagli elettori come tentativi di rovesciare lo status quo e, quindi, respinte.
Dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica, si è, quindi, passati all’elezione diretta del Presidente del Consiglio, ma non è la stessa cosa. Il premierato si rivela essere un’invenzione utile per due motivi principali: uno, iniziare a mettere le mani sul testo della Carta costituzionale (che non è cosa semplice, Renzi docet), cioè sondare il terreno, “vedere come va”; due, non entrare in conflitto con la Presidenza della Repubblica, con cui i rapporti sono già tesi vista la bassa simpatia che, personalmente, nutre il Presidente Mattarella nei confronti del Governo Meloni e di certi suoi esponenti. In politica, le parole non dette sono molto più importanti di ciò che viene detto e per capire il “non detto” bisogna saper leggere tra le righe. Tradizionalmente, chi occupa incarichi istituzionali parla quando deve “attaccare” qualcuno, quando, cioè, deve prendere una posizione. Altrimenti, egli lavora in religioso silenzio. Il Presidente Mattarella è un maestro di questa antichissima arte, che in fondo non è altro che politica “classica”.
Dopo l’inchiesta di Fanpage su Gioventù Nazionale, una Giorgia Meloni infuriata faceva appello al Presidente della Repubblica, chiedendone un intervento: “Perché in 75 anni di storia repubblicana nessuno ha ritenuto di infiltrarsi in un partito politico, riprenderne segretamente le riunioni? È consentito, lo chiedo a Lei” — cioè, ad un giornalista, presumibilmente di Fanpage — “lo chiedo ai partiti politici, lo chiedo al Presidente della Repubblica. È consentito da oggi? Glielo dico? Perché in altri tempi, questi, sono i metodi che usavano i regimi”. Il Presidente Mattarella non ha, ovviamente, risposto direttamente alla domanda, ha preferito mantenere un religioso silenzio finché non è intervenuto all’inaugurazione della 50ª Settimana sociale dei cattolici italiani, il cui tema è “Al cuore della democrazia”. In questa occasione, il Presidente della Repubblica ha risposto a Meloni: “L’esercizio della democrazia non si riduce ad un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio suffragio nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino, perché tra loro inscindibili, libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa”. Ed ancora: “Dopo la costrizione ossessiva del regime fascista soffiava l’alito della libertà, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini”.
Parole che non lasciano ben presagire al Governo di Meloni, che vuole proprio mettere le mani su quelle garanzie, su quella intelaiatura, che dà forma alla nostra Repubblica.
Un altro attacco a Meloni arriva da Silvestri, ex presidente della Corte costituzionale, che si riallaccia al discorso del Presidente Mattarella: “Sarebbe bene ricordarsi che nessuna maggioranza è eterna e che, prima o poi, si torna minoranza. La Costituzione è lì proprio per tutelare le minoranze, preservarne l’integrità conviene a tutti”. Silvestri, poi, ha commentato il premierato con parole di fuoco (come dovrebbe fare qualsiasi giurista che si rispetti): “Il Parlamento correrebbe il pericolo di non rappresentare più il Paese e di diventare una mera struttura di servizio del governo. Il Presidente della Repubblica sarebbe ridotto ad un ruolo notarile e rischierebbe di perdere la funzione di arbitro”; ed ancora sul premierato, che sarebbe “un progetto ispirato ad una logica di cumulo autoritario del potere, che si articola in due modi: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e una legge elettorale che deve creare una maggioranza a sua immagine e somiglianza. Di fatto, così il premier raddoppierebbe il suo potere, originato sia dal popolo che dal Parlamento”.
Ma è un passo del discorso del Presidente, in particolare, che dovrebbe preoccupare e non poco Meloni: “La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, la imprescindibilità della definizione e del rispetto delle regole del gioco: perché, come ricordava Norberto Bobbio, generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alla decisione della maggioranza, nel senso che non possono violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza”. L’indizio è offerto da “ruolo insopprimibile delle assemblee elettive”, che richiama il premierato, che, di fatto, ridurrebbe il Parlamento al ruolo di semplice passacarte per conto del Governo.
Quali sono i piani di Meloni per contrattaccare? Renzi, il 26 maggio, aveva sfidato Meloni sul referendum: “Se si farà e lo perde, dovrà dimettersi”. Quella di un eventuale referendum perso è una probabile paura di Meloni, che avverte anche il Quirinale fortemente ostile ad ogni riforma della forma di governo, soprattutto per quanto riguarda il premierato. C’è chi sostiene, che potrebbero esserci elezioni anticipate, il cui esito, però, non modificherebbe i rapporti di forza né tra i partiti né tra le istituzioni. Tuttavia, secondo la teoria delle elezioni anticipate, Meloni avrebbe in programma di ritornare al progetto semipresidenziale del 2018. Altra ipotesi, vede il venir alla luce di una nuova legge elettorale, a seguito dell’approvazione del premierato. Anche qui, si vocifera di importare il sistema elettorale francese, vale a dire maggioritario a doppio turno, il quale, però, presenta subito una possibile spina nel fianco per il centrodestra: il ritorno dell’ammucchiata della sinistra contro le “pericolosissime destre neofasciste”. Sulla legge elettorale, una certezza ce l’abbiamo: ogni ritorno al sistema proporzionale puro, “pericolosissimo per garantire la stabilità di chi governa”, è impossibile, sappiamo che la legge elettorale sarà sicuramente maggioritaria.
(5 luglio 2024)
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